Purtroppo nessuno è immune al dolore. Si dice che ognuno reagisce alle sofferenze a modo suo, eppure continua a sorprendermi la differenza che intercorre fra le persone nell’incassare le brutte notizie. Dove brutte sta per tremende e incassare significa reagire a proprio modo alle inevitabili conseguenze che l’informazione comporta. Da un lato è rassicurante questa distinzione. Se c’è chi manca di reagire, chi si rifiuta di accettare e chi è debole, c’è anche chi dimostra senso pratico, forza e responsabilità. Dall’altro fa riflettere come gli stessi problemi della vita vengano affrontati dalle persone in maniera talmente diversa, da rendere impossibile effettuare un confronto. Non solo le persone, ma anche i contesti sono differenti e non si può pregiudicare da questi ultimi per ricavarsi un’idea al riguardo.
Tuttavia, quello che più mi lascia basita è la generica tendenza a straparlare di alcuni. O meglio a sbandierare i fatti propri come pesce al mercato. Poiché spesso non è importante chi si ha davanti, bensì rispondere a quell’impulso che spinge a raccontare ogni evento che li riguarda. Che si tratti di notizie liete o terribili, di ordine generale o di carattere privato, alcuni colgono al volo qualsiasi occasione per poterle riportare.
Il fatto è che, se si tratta di buone nuove, lo trovo un atteggiamento comprensibile. Se non altro riesco a spiegarmelo con il desiderio di gridare al mondo la propria gioia. E questo, scegliendo la causa più nobile e ignorando deliberatamente le alternative più deprecabili che possano spingere alla divulgazione. Quali per esempio vanità, arroganza, alterigia, boria.
Quando invece si tratta delle notizie terribili, quelle che inevitabilmente causano dolore, non mi è chiaro se si sia in cerca di approvazione, compassione, o semplice attenzione. Potrebbe anche trattarsi di un metodo per affrontare la difficoltà in questione, ma da persona riservata quale sono, lo considero un atteggiamento obbrobrioso. Farne un tabù sarebbe sbagliato, anzi parlarne è giusto e doveroso, ma perché tirare in ballo all’argomento inserendolo in una conversazione che verte su tutt’altro? E soprattutto senza che ci sia la giusta dose di confidenza con l’interlocutore. Un po’ come si farebbe nel riportare l’ultimo pettegolezzo udito dalla parrucchiera. Ecco, questo mi sembra quasi una mancanza di rispetto nei confronti dell’interessato.
Che parlare abbia una sorta di effetto taumaturgico sulle persone è innegabile. Per questo esistono gli amici, la famiglia, gli psicologi… Perfino scrivere può essere d’aiuto e fungere come valvola di sfogo, ma mi risulta arduo credere che raccontare le proprie disgrazie a chicchessia possa aiutare a superare i momenti difficili della vita. Dove difficili sta per devastanti.
Per quanto non condivida tale atteggiamento mi tocca rassegnarmi al fatto che sia la scelta più gettonata. E, benché ai miei occhi il fatto che sia una pratica diffusa lede piuttosto che favorire la difesa del punto di vista opposto al mio, si potrebbe anche affermare che sia io a mancare di lungimiranza. Magari hanno scoperto il metodo per debellare lo spauracchio della morte. In tal caso scriverei spinta dalla delusione poiché, se è così, a me resterà precluso.
Quanto al dolore che affligge tutti noi, in un’unica caratteristica trovo che possiamo ritrovarci concordi. Alexandre Dumas ha espresso il concetto alla perfezione:
È una delle forme di orgoglio della nostra povera umanità che ognuno si creda più infelice di un altro che piange e geme accanto a lui.